Dal Sole 24 Ore:
Finalmente definite, nella risoluzione 48/E dell'8 luglio, le modalità di calcolo della quota di imposta estera detraibile ai sensi dell'articolo 165, comma 10, del Tuir, secondo cui "nel caso in cui il reddito prodotto all'estero concorra parzialmente alla formazione del reddito complessivo, anche l'imposta estera va ridotta in misura corrispondente". Tale disposizione, per effetto della norma di interpretazione autentica introdotta dall'articolo 36, comma 30, decreto legge 223/2006, deve ritenersi applicabile anche ai crediti di imposta riferiti ai redditi da lavoro dipendente prestati all'estero ai sensi dell'articolo 51, comma 8-bis del Testo unico.
Si tratta di quei redditi da lavoro dipendente, prodotti da persone fisiche residenti in Italia che hanno lavorato all'estero in via continuativa e come oggetto esclusivo del rapporto di lavoro per più di 183 giorni nell'arco di 12 mesi, calcolati sulla base delle retribuzioni convenzionali annualmente definite con decreto interministeriale.
A seguito di tale chiarimento, il lavoratore dipendente che abbia subito una doppia imposizione potrà portare in detrazione un'imposta estera in proporzione al rapporto tra reddito "convenzionale" e reddito prodotto all'estero. A riguardo, l'Agenzia fornisce importanti precisazioni in merito alla corretta determinazione del reddito prodotto all'estero, chiarendo come i criteri di computo dello stesso debbano necessariamente seguire i criteri tributari italiani, contenuti nell'articolo 51 del Tuir, con esclusione del comma 8-bis.
Tale indirizzo interpretativo deriva sostanzialmente dalla necessità di comparare valori di reddito ("convenzionale" e "complessivo") che siano fra di loro omogenei, prevenendo in tal modo il sorgere di eventuali effettivi distorsivi e discriminatori che scaturirebbero nell'ipotesi in cui il reddito complessivo (alla cui determinazione partecipa anche il reddito estero) sia calcolato secondo le disposizioni dell'ordinamento fiscale dello Stato in cui il reddito è stato prodotto.
Nel motivare il proprio ragionamento, l'agenzia delle Entrate muove dal comma 10 che mette in rapporto il "reddito estero" e il "reddito complessivo" in una relazione di confronto che deve avvenire tra valori omogenei; obiettivo che può essere raggiunto solo qualora i redditi da comparare siano determinati utilizzando la medesima fonte giuridica. Ad avviso dell'Agenzia, anche la definizione di "reddito complessivo" di cui all'articolo 8 del Tuir conforta tale interpretazione; infatti il reddito tassato all'estero non concorre alla formazione del reddito complessivo, il quale è determinato "sommando i redditi di ogni categoria …" valorizzati secondo la normativa domestica.
In aggiunta, anche la definizione di reddito estero attuata con criteri di reciprocità dall'articolo 165, comma 2 del Tuir, (secondo cui "i redditi si considerano prodotti all'estero sulla base di criteri reciproci a quelli previsti dall'articolo 23 per individuare quelli prodotti nel territorio dello Stato"), conferma come "… il concetto di reddito estero prende sempre le mosse dall'ordinamento italiano e gli strumenti utilizzati per la sua determinazione non possono non essere quelli propri del sistema fiscale nazionale".
A riguardo, l'orientamento dell'amministrazione finanziaria presenta alcune problematiche di natura operativa derivanti dalla necessità di riconciliare secondo i principi stabiliti dal Tuir (sia in fase dichiarativa, sia in sede di controllo formale delle dichiarazioni o, eventualmente, di accertamento), la porzione di reddito complessivo originariamente calcolato ai sensi della legislazione dello Stato estero, in genere immediatamente desumibile dalle certificazioni rilasciate delle autorità fiscali estere.
Infatti, tale operazione implica da un lato la rideterminazione di tutte quelle componenti reddituali che erano state inizialmente assoggettate a tassazione piena nello Stato estero e che invece in Italia potrebbero essere in tutto o in parte esentate (si pensi, ad esempio, alle indennità di trasferimento di cui all'articolo 51, comma 7 del Tuir, che non concorrono a formare il reddito nella misura del 50% del loro ammontare per un importo complessivo annuo non superiore a 4.648,11 euro per i trasferimenti all'estero), dall'altro la deduzione di oneri prevista dall'ordinamento giuridico italiano e non uniformemente concessa dagli Stati esteri in cui il reddito potrebbe essere stato prodotto (si pensi ad esempio ai contributi previdenziali obbligatori a carico del dipendente).
È chiaro come, anche nel caso in cui il reddito complessivo estero sia riconciliato ai sensi della normativa italiana, la quota di imposta estera effettivamente detraibile ai sensi dell'articolo 165, comma 10 del Tuir possa subire incrementi o decrementi strettamente connessi alle componenti reddituali e agli oneri deducibili considerati nella rideterminazione, ai fini italiani, del reddito effettivo estero.
In sostanza, il riproporzionamento dell'imposta estera detraibile, attuato mediante il rapporto tra reddito convenzionale e reddito estero rideterminato, potrebbe comunque comportare delle distorsioni, derivando l'imposta estera da un imponibile che contiene componenti potenzialmente non tassabili in Italia; in tale ipotesi si porterebbero in detrazione imposte estere applicate anche su elementi reddituali non imponibili nel nostro Stato.
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