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domenica 26 ottobre 2014

Crisi economica? E il negozio diventa casa.

Con la crisi economica, si sta verificando un fatto curioso: molti negozi stanno diventando abitazioni.
Il fenomeno, in aumento nelle grandi città, è stato osservato e segnalato da Immobiliare.it. Grazie a un prezzo fino al 35% inferiore rispetto a quello di un appartamento tradizionale, gli esercizi commerciali diventano una soluzione abitativa che fa gola a chi non ha molto denaro da spendere.
Anche se questo tipo di soluzione, lo ricordo, nel nostro Paese non è consentito.
Nelle aree metropolitane di Roma, Milano e Torino l’offerta complessiva nel 2014 sarebbe di 5200 spazi di questo tipo. E le zone dove si ricorre più volentieri a questa soluzione sono quelle centrali. Diverse le cause alla base di questo fenomeno, secondo Carlo Giordano, ad di Immobiliare.it. "In molti casi non si verifica il passaggio generazionale dei proprietari degli esercizi commerciali nella gestione dell’attività. Perciò i negozi, sempre più spesso, rimangono vuoti a lungo. Quindi il proprietario non percepisce un utile da quello spazio, ma gli restano costi di mantenimento e tasse". Dopo un po’ quindi si cambia destinazione.
Per andare incontro alle esigenze degli abitanti, in futuro si potrebbe anche andare verso una trasformazione legislativa che acconsenta a formule di utilizzo degli spazi analoghe al Nord Europa. Questo rappresenterebbe anche una soluzione al problema della chiusura degli spazi commerciali che causa una sensazione di abbandono e di mancanza di sicurezza nelle strade e la perdita di accessibilità ai servizi di prossimità per le fasce più de
boli della popolazione. (fonte La Stampa)

mercoledì 6 agosto 2014

Istat: il pil è negativo, -0,2%. Ed è il secondo trimestre consecutivo.

"I dati dell'Istat più chiari di così non potrebbero essere - scrive oggi Panorama -  il prodotto interno lordo nel secondo trimestre è negativo dello 0,2%. È il secondo trimestre consecutivo con il segno meno dopo che tra gennaio e marzo la (de)crescita era stata pari a -0,1%. L'economia italiana non cresce. Anzi soffre terribilmente. È in recessione tecnica, come si dice in questi casi.
La situazione è pesante: secondo Istat, con la flessione registrata nel secondo trimestre dell'anno, il pil italiano è tornato, in termini reali, ai valori del secondo trimestre del 2000"

Il calo congiunturale - sottolinea l'Istituto - è la sintesi di una diminuzione del valore aggiunto in tutti e tre i grandi comparti di attività economica: agricoltura, industria e servizi. Nulla si salva. E, dato ancora più grave, la sofferenza risente dell'indebolimento della domanda dall'estero.
L'unico segnale positivo è nel breve periodo e viene dalla produzione industriale che a giugno rispetto a maggio ha segnato un +0,9% mentre rispetto a un anno fa la crescita è dello 0,4%. Ma su base trimestrale, anche in questo caso, le note sono dolenti: -0,4% rispetto al trimestre precedente quando aveva segnato un +0,1%.

venerdì 13 giugno 2014

«Anche in Italia le cose cambieranno»

Stavo leggendo il Sole 24 Ore e ho pensato: cambieranno veramente le cose in Italia?

Siamo terzultimi nell'economia positiva - è emerso ieri al forum di San Patrignano - e se il futuro è lì, come sostiene Jacques Attali, la strada della risalita sarà lunga.
La positività di un'economia si misura tenendo presenti altri indicatori oltre al Pil. Per l'indice di un Paese, la Commissione Attali ha considerato 29 indicatori tra cui la natalità, le infrastrutture, la stabilità politica ma anche la qualità della gestione delle risorse idriche, il grado di responsabilità sociale delle imprese presenti sul territorio. Si misurano anche le questioni ambientali, il tasso di partecipazione elettorale, la fiducia interpersonale.
Gli indicatori in sostanza fotografano il principio di altruismo razionale, principio fondamentale dell'economia positiva: «L'economia positiva è soprattutto guardare al lungo termine - commenta Jacques Attali - Si è sempre vissuto nel carpe diem e non c'è nulla di più distruttivo». «La posizione dell'Italia mi ha deluso - ha commentato Attali - ma sono certo che già dal prossimo anno le cose cambieranno». E la comunità di San Patrignano resta un modello esemplare di come concepire l'economia positiva.
In vetta alla classifica dei Paesi Ocse ci sono gli Stati del Nord Europa: Danimarca, Norvegia, Svezia. Gli Stati Uniti al 12° posto sono una sorpresa al contrario. Sebbene siano avanti nella responsabilità sociale delle imprese, dall'altro accusano un alto livello di disuguaglianza. La Germania è 13esima nonostante l'alto livello di competitività della sua economia e segna il passo rispetto al valore della condivisione nei suoi indicatori.

giovedì 17 aprile 2014

Banche: Bankitalia, possibile inversione di rotta su qualita' credito

Come ci dice Borsa Italiana, la qualità del credito in Italia è in via di miglioramento.
Leggete il breve articolo di seguito:

Sulla qualità del credito in Italia "si riscontrano segnali positivi che sembrano prefigurare una inversione di tendenza" afferma il capo della Vigilanza della Banca d'Italia Carmelo Barbagallo in un intervento. Il tasso di ingresso in sofferenza dei prestiti alle imprese, in crescita ininterrotta dal terzo trimestre del 2011, "sta ora diminuendo". La situazione, secondo l'esponente di Banca d'Italia, è sempre difficile con rettifiche sui prestiti che negli ultimi due anni sono aumentate a "oltre 60 miliardi". Barbagallo osserva che "la natura banco-centrica del nostro sistema finanziario fa da freno all'economia" e sottolinea come siano importanti, per la ripresa del credito, le cartolarizzazioni. Strumento da rilanciare anche con misure legislative "volte a rendere piu' robusto il regime normativo a tutela degli investitori" e a semplificarne la realizzazione.

martedì 25 febbraio 2014

Italiani più prudenti sulle scelte di investimento

Ha ragione il Sole 24 Ore a dire che siamo diventati più attenti quando si parla di risparmio? Forse la situazione economica in cui ci troviamo ci ha portato a pensare due volte prima di investire...

Italiani più prudenti rispetto al risparmio, almeno secondo il sondaggio condotto da IPR Marketing, diretto da Antonio Noto, in esclusiva per Plus24. I numeri sono eloquenti: il 64% dice di guardare più all'eventuale rischio che al rendimento e solo il 16% ammette di guardare subito (se non solo) agli schèi, al rendimento atteso. Una situazione in cui secondo Giancarlo Forestieri, ordinario di economia degli intermediari finanziari alla Bocconi: «si può riscontrare un atteggiamento che impropriamente vede il rischio come "possibilità di perdita", o quello che in letteratura è definito come loss aversion. Questo può spiegare il peso maggiore che assume rispetto al rendimento». I prodotti complessi poi rendono ancora più guardinghi gli investitori, che per l'83% si dichiarano allineati all'indicazione dell'Esma (l'authority europea dei mercati finanziari) che ha di recente avvertito: meglio evitare di investire se non si capiscono le caratteristiche del prodotto. Ovviamente questo presupporrebbe che l'investitore riesca a percepire effettivamente il prodotto di investimento che si compra. Secondo Simone Mariotti, promotore finanziario e saggista: «"Quanto rende" è da sempre la prima richiesta che arriva dalla maggior parte degli investitori. Chiunque affermi il contrario racconta storie o non ha mai avuto rapporti diretti con i risparmiatori. Che poi negli ultimi anni sia maturata una sorta di paura, che ha portato anche ad affiancare la richiesta "basta non perdere", è ugualmente vero. Ma la realtà è che si sa che ci sono dei rischi, ma pur essendone un po' più consapevoli che in passato (sempre però con grandi lacune e grandi amnesie), si tende a volere la moglie ubriaca e la botte piena»

martedì 11 febbraio 2014

"Lasciamo le banche deboli fallire"

Leggendo La Repubblica ho scoperto che affichè il sistema goda di buona salute bisogna lasciare che le banche più deboli falliscano...  


LONDRA - Lasciamo che le banche più deboli falliscano, se vogliamo che tutte le altre siano in salute. E' il credo espresso dalla nuova "zarina" della regulation finanziaria europea, Danièle Nouy, direttrice del Single Supervisory Mechanism, l'ente di supervisione dell'Eurozona. Francese, proveniente da un incarico analogo alla testa dell'agenzia di supervisione bancaria del proprio paese, nota per la piccola statura e uno sguardo che gela i suoi interlocutori, Nouy ha rivelato in un'intervista pubblicata oggi in prima pagina dal Financial Times che l'Unione Europea dovrà diventare più severa nei confronti delle banche "deboli", ovvero sovraesposte sul piano dei debiti e con investimenti mal gestiti: "Dobbiamo accettare l'idea che alcune banche non hanno futuro", afferma una delle figure chiave della finanza continentale, segnalando una posizione simile a quella del governatore della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, sull'inevitabilità che l'imminente "check out" a cui le maggiori banche europee verranno sottoposte non sarà superato positivamente da tutte.
"Dobbiamo lasciare che alcune banche scompaiono in modo ordinato, e non tentino necessariamente di fondersi con altri istituti di credito" per cercare di salvarsi", dice Nouy. "Ammetto che il momento migliore per cambiare le regole non è nel mezzo di una crisi", soggiunge, "ma ciononostante c'è la possibilità di fare di più e alcuni paesi stanno applicando norme più rigide". La sua disponibilità ad accettare fallimenti bancari, osserva il quotidiano della City, farà suonare campanelli d'allarme tra i leader politici, in particolare "in Italia e in Germania", che saranno riluttanti a vedere le proprie banche fallire. "Non so quante banche debbano fallire", dichiara Nouy al Financial Times. "Quel che so è che vogliamo avere il più alto livello di qualità". E ancora: "Sappiamo di avere una sola opportunità per dimostrare la nostra credibilità e la nostra reputazione". Ripulire il sistema bancario, fa capire, non sarà un'impresa indolore. Per ottenere un certificato di "buona salute" per l'intero sistema, i malati terminali dovranno essere sacrificati.


lunedì 3 febbraio 2014

Volano le tasse sugli immobili

Prepariamoci a pagare sempre di più...
La Stampa: il mattone sempre più nel mirino del fisco: pesano Imu, Tasi e prelievo sui rifiuti

Si pagheranno più tasse per gli immobili quest’anno. Il peso fiscale su questo tipo di beni, infatti, supererà nel 2014 i 52 miliardi di euro: ben 2,9 miliardi in più rispetto al 2013. Non solo: dall’inizio della crisi il livello di tassazione sulle case, sui negozi, sugli uffici e sui capannoni è aumentato di ben 10 miliardi. I dati sono stati elaborati dalla Cgia e indicano, secondo l’associazione degli artigiani veneta, ancora una volta come il “mattone” sia sempre più nelle mire del fisco con l’obbiettivo di far cassa.

«Se in questi ultimi otto anni il prelievo legato alla redditività degli immobili è rimasto pressoché uguale - precisa Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia - quello riferito ai trasferimenti di proprietà è addirittura sceso del 23%, a seguito della fortissima crisi che il mercato immobiliare ha subito in questi ultimi anni. Solo il gettito riconducibile al possesso dell’immobile - osserva - ha subito un vera e propria impennata: dal 2007 ad oggi è cresciuto del 78%. Tra l’Imu, la Tasi e il nuovo prelievo sui rifiuti (Tari), quest’anno pagheremo quasi 31 miliardi di euro». Per Bortolussi questo importo «incide sul prelievo totale per quasi il 60%’’.

«Tenendo conto di tutto il sistema fiscale che grava sul mattone - afferma l’associazione nel suo rapporto sul carico fiscale sugli immobili - quest’anno i proprietari di immobili pagheranno quasi 3 miliardi in più rispetto all’anno precedente. Una buona parte di questo rincaro, secondo lo studio, va addebitato all’introduzione della Tasi che appesantira’ il prelievo fiscale soprattutto sui proprietari di seconde e terze case e su quelli che possiedono un immobile ad uso produttivo”. La Cgia ricorda che negli ultimi 8 anni il prelievo sui rifiuti è aumentato del 66%: era pari a 4,6 miliardi ed ora ha raggiunto quota 7,6 miliardi, mentre l’imposta che grava sugli immobili (prima l’Ici popi l’Imu ed ora Iuc) ha fatto salire il carico fiscale del 53%.

Nel 2007 - conclude la Cgia - il gettito era di 12,7 miliardi, nel 2014 sfiorera’ i 19,5 miliardi di euro. Tuttavia, la voce che ha subito la variazione percentuale più forte è stata quella riferita alle successioni e donazioni: +390%. Se nel 2007 l’Erario aveva incassato 106 milioni di euro, nel 2014 il gettito previsto raggiungerà i 520 milioni di euro.

martedì 19 novembre 2013

Una terra di risparmiatori. Cresce il “tesoro” in banca

Secondo quanto ci dice la Repubblica, i piemontesi sono colori i quali maggiormente riescono a risparmiare anche in tempi di crisi.

Torino - Il Piemonte non è terra per cicale. Nonostante la crisi, che colpisce al cuore le imprese e fa impennare il numero dei disoccupati, nonostante il calo nei consumi che fa disperare commercianti e esercenti, il “tesoretto” in banca è sempre più cospicuo. Da brave formichine i piemontesi riescono a risparmiare anche in tempi di recessione. A giugno la Banca d'Italia ha contato 128,2 miliardi che le famiglie e le imprese piemontesi hanno dato in custodia agli istituti, ossia il 2,7 per cento in più rispetto allo stesso periodo del 2012. Sul conto. Nel totale dell’indagine di Bankitalia figurano 87 miliardi in 'depositi', più della metà dei quali parcheggiati sui conti correnti (52 miliardi, più 4 per cento su giugno 2012). Un terzo dei soldi (35 miliardi per la precisione, quasi un dieci per cento in più rispetto a dodici mesi prima) sono versati su depositi di risparmio, dunque vincolati rispetto a quelli dei conti correnti. Ma ci sono anche 41 miliardi investiti in obbligazioni bancarie: una cifra in leggero calo rispetto a un anno fa (meno 1,7 per cento) ma comunque sempre di un certo impatto.

Il portafoglio:

Nei primi sei mesi dell'anno è aumentato anche il valore dei titoli posseduti dalle famiglie e dalle imprese: 80 miliardi in tutto, cresciuti del 5,2 per cento rispetto a metà 2012. Se si guarda alla sola clientela retail, escludendo quindi le aziende, si nota come i piemontesi abbiano un buon feeling con i titoli di Stato. Bot, Cct, Btp piacciono sempre a Cuneo come a Novara, a Asti come a Biella. Complessivamente la ricchezza dei piemontesi investita negli strumenti offerti dallo Stato tocca quota 24 miliardi, con una crescita dello 0,5 per cento rispetto al giugno di dodici mesi fa. Ma è tornata anche un po' di passione per le azioni. Su Piazza Affari e altre borse internazionali sono impegnati 7,5 miliardi. Poco meno di un terzo rispetto a quanto è destinato ai titoli di Stato ma in questo caso colpisce di più la performance rispetto all’anno precedente: il 6,8 per cento in più. Insomma la Borsa torna a sedurre, complice anche il trading online che pure in Piemonte raccoglie un numero sempre maggiore di clienti. Però il vero “boom” è quello registrato dagli “organismi collettivi di risparmio”, cioè fondi comuni e Sicav. Insomma, forse scottati da precedenti esperienze non proprio confortanti e frenati da un andamento dei mercati borsistici spesso altalenante, la maggior parte dei piemontesi disposta a rischiare qualcosa pur di avere interessi un po’ più ignificativi di quelli offerti dai titoli di Stato, hanno puntato sui fondi comuni, nelle loro diverse declinazioni. Alla fine ne è uscito un capitale che di poco sorpassa quello investito nei titoli del Tesoro: 24,7 miliardi, una cifra lievitata del 25,9 per cento. Male invece le obbligazioni: hanno registrato una flessione del 18,9 per cento rispetto alla penultima indagine della Banca d’Italia.

Il credito:

In flessione ma sostanzialmente stabile rispetto a un anno fa l’importo dei prestiti (sia delle banche, sia delle società finanziarie) è diminuito dello 0,3 per cento, come dodici mesi fa. L’andamento negativo si spiega con l’ulteriore calo dei prestiti per l’acquisto di abitazioni, scesi dell’1,1 per cento. Per contro, il credito al consumo è cresciuto dello 0,7 per cento, merito soprattutto delle società finanziarie brave a intercettare clienti anche della banche (performance negativa per queste ultime). Ai piemontesi piacciono sempre molto i titoli di Stato anche se nell’ultimo anno sono stati scavalcati dai fondi comuni.

lunedì 11 novembre 2013

Mercati emergenti: cosa è cambiato dopo il Fome meeting di settembre

Un momento di respiro: questo è ciò che hanno ottenuto gli emergenti dopo il posticipo del tapering, secondo gli analisti intervistati da Fondi&Sicav.
Soren Beck-Petersen di Hsbc Global Asset Management, spiega:
"Prima della riunione del Fomc le azioni degli emergenti avevano già cominciato a recuperare, man mano che i dati economici suggerivano una stabilizzazione della crescita nei principali mercati, Cina in particolare. Crediamo che la decisione di posticipare il tapering fornirà probabilmente un ulteriore supporto alle azioni dei mercati emergenti per il resto dell'anno".
La stessa opinione è confermata da Robert Rausch, il responsabile della direzione investment solutions di Banca Esperia, la boutique finanziaria guidata da Andrea Cingoli:
"Il rally dei mercati azionari degli emergenti e iniziato alla fine di Maggiore stabilità, ma di breve durata  I paesi emergenti agosto, ossia molto in anticipo rispetto alle dichiarazioni rilasciate da Bernanke che hanno poi fornito ulteriore spinta ai listini azionari; l'effetto principale è stato legato ai tassi di interesse dei quali si è verificata una discesa dopo l'annuncio che il tapering verrà posticipato a data da destinarsi".

giovedì 7 novembre 2013

Mercati emergenti: nessun boom all'orizzonte

"I mercati emergenti - scrive Fondi & Sicav - sembrano usciti da una delle crisi peggiori della loro storia recente. Infatti tutta la prima parte del 2013 è stata difficoltosa, con alcune piazze particolarmente fragili, come Brasile, Indonesia e India, che a un certo punto hanno fatto temere il crack. Dietro questi problemi vi sono ragioni ormai ben note: il rallentamento strutturale cinese, i deficit delle partite correnti di alcuni paesi ancora poco competitivi a livello industriale, nonché l'estate di ribassi obbligazionari."
Secondo alcuni analisti, la crescita degli utili dovrebbe attestarsi intorno al 12%.
Robert Rausch, responsabile della direzione investment solutions di Banca Esperia, la Private Bank guidata da Andrea Cingoli, precisa: "Questo incremento sarà guidato di pari passo dalle imprese che producono beni di consumo e dalle industrie che, grazie al deprezzamento delle valute avvenuto negli ultimi tempi, hanno recuperato cornpetitività. Rispetto ad alcuni anni fa il tessuto industriale dei paesi emergenti è cambiato notevolmente: nell'ultimo periodo queste nazioni hanno costruito una solida base anche nel settore dei consumi e dei servizi e le loro esportazioni sono ora molto diversificate".

martedì 15 ottobre 2013

Bond: Blackrock, torneremo a investire su Italia se spread si allarga


Se lo spread si allargherà, ci spiega il Corriere della Sera, si tornerà ad investire sull'Italia.

Blackrock sul mercato obbligazionario e' "neutrale su Italia e Spagna", mentre preferisce Irlanda, Portogallo e Slovenia e complessivamente e' "positivo sulla periferia dell'Eurozona". Cosi' ha spiegato, nel corso di una conferenza stampa a Milano, Andrea Vigano', country head Blackrock Italia. "La visione di fondo di Blackrock sull' Italia e' sempre stata molto positiva, ora e' meno attraente visto il restringimento dello spread, anche se la visione di fondo resta comunque positiva. Le valutazione sono piu' o meno corrette. Se lo spread si allargherà torneremo a investire", ha precisato Vigano' spiegando che l'Italia e' un "paese patrimonialmente piu' solido" a livello complessivo di debito, risparmio famiglie, banche. "Il problema e' la velocita' di crescita molto bassa, che richiede ulteriori riforme per essere accelerata".

lunedì 7 ottobre 2013

Dagli Usa si vede un Toro in Europa

Su Morningstar qualche bagliore di speranza: la crisi europea piano piano si sta risanando.


Gli americani credono alla fine della crisi in Europa. E si fanno venire l’appetito per gli asset del Vecchio continente. Secondo uno studio di Goldman Sachs, gli investitori Usa fra gennaio e maggio di quest’anno hanno comprato azioni europee per 65 miliardi di dollari. Si tratta del valore più alto da prima dello scoppio delle crisi finanziarie. La scelta degli operatori yankee si basa principalmente su due considerazioni: il miglioramento dello scenario macro e le valutazioni dell’equity.

“Il recupero dell’Europa sta cominciando ad autoalimentarsi ed ha sempre meno bisogno dei piani di aiuto delle istituzioni internazionali”, spiega Robert Johnson, responsabile della ricerca economica di Morningstar. “I consumatori e le aziende iniziano a sentirsi più sicuri. In questo senso aiutano sia l’allentamento di alcune misure di austerità che la ripresa delle esportazioni verso alcune zone emergenti”.

Situazione fragile
Questo, tuttavia, non significa che lo scenario sia tranquillo. “La situazione in Europa resta fragile per diverse ragioni”, spiega uno studio di Invesco. “La crescita del quarto trimestre potrebbe essere messa in discussione dai numeri sulla produzione industriale di luglio (-1,7%) che hanno annullato il +1,5% messo a segno a giugno. Alcuni paesi periferici, inoltre hanno bisogno di altri aiuti per venire a capo del debito. E’ vero che la recessione è finita, ma alcuni stati devono ancora fare i conti con un rapporto fra debito e Pil superiore al 100% che agisce da zavorra nei confronti della crescita economica”.

Le valutazioni
“Su base globale, in particolare contro gli Stati Uniti, le valutazioni sono interessanti e siamo ancora una volta in grado di trovare un numero crescente di opportunità di investimento”, spiega una nota firmata da Mark Burgess, Chief investment officer di Threadneedle Investments. “Con la crescita globale che sta diventando più robusta di quanto non lo sia stata da qualche tempo, la prospettiva per molti dei campioni mondiali quotati sul mercato europeo è migliorata e siamo diventati più ottimisti verso questa asset class muovendoci verso la posizione neutrale. Per cambiare le nostre previsioni da neutrale a sovrappeso, però, avremmo bisogno di vedere una maggiore ripresa per l'economia europea sottostante”.




Gli americani credono alla fine della crisi in Europa. E si fanno venire l’appetito per gli asset del Vecchio continente. Secondo uno studio di Goldman Sachs, gli investitori Usa fra gennaio e maggio di quest’anno hanno comprato azioni europee per 65 miliardi di dollari. Si tratta del valore più alto da prima dello scoppio delle crisi finanziarie. La scelta degli operatori yankee si basa principalmente su due considerazioni: il miglioramento dello scenario macro e le valutazioni dell’equity.
“Il recupero dell’Europa sta cominciando ad autoalimentarsi ed ha sempre meno bisogno dei piani di aiuto delle istituzioni internazionali”, spiega Robert Johnson, responsabile della ricerca economica di Morningstar. “I consumatori e le aziende iniziano a sentirsi più sicuri. In questo senso aiutano sia l’allentamento di alcune misure di austerità che la ripresa delle esportazioni verso alcune zone emergenti”.
Situazione fragileQuesto, tuttavia, non significa che lo scenario sia tranquillo. “La situazione in Europa resta fragile per diverse ragioni”, spiega uno studio di Invesco. “La crescita del quarto trimestre potrebbe essere messa in discussione dai numeri sulla produzione industriale di luglio (-1,7%) che hanno annullato il +1,5% messo a segno a giugno. Alcuni paesi periferici, inoltre hanno bisogno di altri aiuti per venire a capo del debito. E’ vero che la recessione è finita, ma alcuni stati devono ancora fare i conti con un rapporto fra debito e Pil superiore al 100% che agisce da zavorra nei confronti della crescita economica”.
Le valutazioni“Su base globale, in particolare contro gli Stati Uniti, le valutazioni sono interessanti e siamo ancora una volta in grado di trovare un numero crescente di opportunità di investimento”, spiega una nota firmata da Mark Burgess, Chief investment officer di Threadneedle Investments. “Con la crescita globale che sta diventando più robusta di quanto non lo sia stata da qualche tempo, la prospettiva per molti dei campioni mondiali quotati sul mercato europeo è migliorata e siamo diventati più ottimisti verso questa asset class muovendoci verso la posizione neutrale. Per cambiare le nostre previsioni da neutrale a sovrappeso, però, avremmo bisogno di vedere una maggiore ripresa per l'economia europea sottostante”.
- See more at: http://www.morningstar.it/it/news/112450/dagli-usa-si-vede-un-toro-in-europa.aspx#sthash.2MFIFThn.dpuf
Gli americani credono alla fine della crisi in Europa. E si fanno venire l’appetito per gli asset del Vecchio continente. Secondo uno studio di Goldman Sachs, gli investitori Usa fra gennaio e maggio di quest’anno hanno comprato azioni europee per 65 miliardi di dollari. Si tratta del valore più alto da prima dello scoppio delle crisi finanziarie. La scelta degli operatori yankee si basa principalmente su due considerazioni: il miglioramento dello scenario macro e le valutazioni dell’equity.
“Il recupero dell’Europa sta cominciando ad autoalimentarsi ed ha sempre meno bisogno dei piani di aiuto delle istituzioni internazionali”, spiega Robert Johnson, responsabile della ricerca economica di Morningstar. “I consumatori e le aziende iniziano a sentirsi più sicuri. In questo senso aiutano sia l’allentamento di alcune misure di austerità che la ripresa delle esportazioni verso alcune zone emergenti”.
Situazione fragileQuesto, tuttavia, non significa che lo scenario sia tranquillo. “La situazione in Europa resta fragile per diverse ragioni”, spiega uno studio di Invesco. “La crescita del quarto trimestre potrebbe essere messa in discussione dai numeri sulla produzione industriale di luglio (-1,7%) che hanno annullato il +1,5% messo a segno a giugno. Alcuni paesi periferici, inoltre hanno bisogno di altri aiuti per venire a capo del debito. E’ vero che la recessione è finita, ma alcuni stati devono ancora fare i conti con un rapporto fra debito e Pil superiore al 100% che agisce da zavorra nei confronti della crescita economica”.
Le valutazioni“Su base globale, in particolare contro gli Stati Uniti, le valutazioni sono interessanti e siamo ancora una volta in grado di trovare un numero crescente di opportunità di investimento”, spiega una nota firmata da Mark Burgess, Chief investment officer di Threadneedle Investments. “Con la crescita globale che sta diventando più robusta di quanto non lo sia stata da qualche tempo, la prospettiva per molti dei campioni mondiali quotati sul mercato europeo è migliorata e siamo diventati più ottimisti verso questa asset class muovendoci verso la posizione neutrale. Per cambiare le nostre previsioni da neutrale a sovrappeso, però, avremmo bisogno di vedere una maggiore ripresa per l'economia europea sottostante”.
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Gli americani credono alla fine della crisi in Europa. E si fanno venire l’appetito per gli asset del Vecchio continente. Secondo uno studio di Goldman Sachs, gli investitori Usa fra gennaio e maggio di quest’anno hanno comprato azioni europee per 65 miliardi di dollari. Si tratta del valore più alto da prima dello scoppio delle crisi finanziarie. La scelta degli operatori yankee si basa principalmente su due considerazioni: il miglioramento dello scenario macro e le valutazioni dell’equity.
“Il recupero dell’Europa sta cominciando ad autoalimentarsi ed ha sempre meno bisogno dei piani di aiuto delle istituzioni internazionali”, spiega Robert Johnson, responsabile della ricerca economica di Morningstar. “I consumatori e le aziende iniziano a sentirsi più sicuri. In questo senso aiutano sia l’allentamento di alcune misure di austerità che la ripresa delle esportazioni verso alcune zone emergenti”.
Situazione fragileQuesto, tuttavia, non significa che lo scenario sia tranquillo. “La situazione in Europa resta fragile per diverse ragioni”, spiega uno studio di Invesco. “La crescita del quarto trimestre potrebbe essere messa in discussione dai numeri sulla produzione industriale di luglio (-1,7%) che hanno annullato il +1,5% messo a segno a giugno. Alcuni paesi periferici, inoltre hanno bisogno di altri aiuti per venire a capo del debito. E’ vero che la recessione è finita, ma alcuni stati devono ancora fare i conti con un rapporto fra debito e Pil superiore al 100% che agisce da zavorra nei confronti della crescita economica”.
Le valutazioni“Su base globale, in particolare contro gli Stati Uniti, le valutazioni sono interessanti e siamo ancora una volta in grado di trovare un numero crescente di opportunità di investimento”, spiega una nota firmata da Mark Burgess, Chief investment officer di Threadneedle Investments. “Con la crescita globale che sta diventando più robusta di quanto non lo sia stata da qualche tempo, la prospettiva per molti dei campioni mondiali quotati sul mercato europeo è migliorata e siamo diventati più ottimisti verso questa asset class muovendoci verso la posizione neutrale. Per cambiare le nostre previsioni da neutrale a sovrappeso, però, avremmo bisogno di vedere una maggiore ripresa per l'economia europea sottostante”.
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Gli americani credono alla fine della crisi in Europa. E si fanno venire l’appetito per gli asset del Vecchio continente. Secondo uno studio di Goldman Sachs, gli investitori Usa fra gennaio e maggio di quest’anno hanno comprato azioni europee per 65 miliardi di dollari. Si tratta del valore più alto da prima dello scoppio delle crisi finanziarie. La scelta degli operatori yankee si basa principalmente su due considerazioni: il miglioramento dello scenario macro e le valutazioni dell’equity.
“Il recupero dell’Europa sta cominciando ad autoalimentarsi ed ha sempre meno bisogno dei piani di aiuto delle istituzioni internazionali”, spiega Robert Johnson, responsabile della ricerca economica di Morningstar. “I consumatori e le aziende iniziano a sentirsi più sicuri. In questo senso aiutano sia l’allentamento di alcune misure di austerità che la ripresa delle esportazioni verso alcune zone emergenti”.
Situazione fragileQuesto, tuttavia, non significa che lo scenario sia tranquillo. “La situazione in Europa resta fragile per diverse ragioni”, spiega uno studio di Invesco. “La crescita del quarto trimestre potrebbe essere messa in discussione dai numeri sulla produzione industriale di luglio (-1,7%) che hanno annullato il +1,5% messo a segno a giugno. Alcuni paesi periferici, inoltre hanno bisogno di altri aiuti per venire a capo del debito. E’ vero che la recessione è finita, ma alcuni stati devono ancora fare i conti con un rapporto fra debito e Pil superiore al 100% che agisce da zavorra nei confronti della crescita economica”.
Le valutazioni“Su base globale, in particolare contro gli Stati Uniti, le valutazioni sono interessanti e siamo ancora una volta in grado di trovare un numero crescente di opportunità di investimento”, spiega una nota firmata da Mark Burgess, Chief investment officer di Threadneedle Investments. “Con la crescita globale che sta diventando più robusta di quanto non lo sia stata da qualche tempo, la prospettiva per molti dei campioni mondiali quotati sul mercato europeo è migliorata e siamo diventati più ottimisti verso questa asset class muovendoci verso la posizione neutrale. Per cambiare le nostre previsioni da neutrale a sovrappeso, però, avremmo bisogno di vedere una maggiore ripresa per l'economia europea sottostante”.
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martedì 1 ottobre 2013

Scatta l’aumento dell’Iva “Una mazzata alla ripresa”

Un estratto dalla Stampa che ci mostra a che cosa potrebbe portare il nuovo aumento dell'Iva appena partito.

Dal vino al caffè, dai frigoriferi alle tv, dagli smartphone ai tablet. E ancora: dai prodotti per la casa a quelli per la cura della persona, dall’ingresso in piscina ai pacchetti vacanza. E prodotti di cartoleria, giocattoli, bibite gassate, succhi di frutta, mobili e biancheria, per dirne alcuni. Un elenco lungo così. La vita, per molti aspetti, da questa mattina costa l’1% in più.

Scatta l’aumento dell’Iva. L’aliquota più elevata - applicata ai prodotti non di prima necessità - passa dal 21 al 22%. E son dolori. Per Federdistribuzione comporterà tra i 105 e 110 euro di costi l’anno in più per famiglia, secondo Coop Italia saran quasi 200 euro. Più pessimisti i consumatori del Codacons: 349 euro in più. La benzina verde - informa Quotidiano Energia - dalla mezzanotte di ieri costa 1,5 centesimi in più, il gasolio 1,4. Insomma, un salasso. «Calcoliamo che il 40% dell’Aumento dell’Iva riguardi i prodotti di acquisto abituale», spiega Giovanni Cobolli Gigli, presidente di Federdistribuzione. 

Il gettito atteso sarebbe pari a 4,2 miliardi. «In realtà - avverte Cobolli Gigli - succederà che in primo luogo aumenterà l’evasione e creerà quello che sostanzialmente è una concorrenza sleale tra operatori. Quindi ci sarà comunque un calo dei consumi. E il gettito ne soffrirà». Intanto, a soffrire, sarà il carrello della spesa. «Le famiglie che già stanno facendo delle rinunce saranno costrette a farne altre». Così se tra gennaio e luglio i consumi son già crollati a valore del 2,6% «per fine anno mi aspetto fino al -3%, tra l’Iva e un ritorno di sfiducia dovuto anche all’instabilità politica».

E pensare che le cose iniziavano, seppure lentamente, a migliorare. «Segnali deboli», li chiama Maurizio Motta, direttore generale di Mediamarket, cui fanno capo i marchi Mediaworld e Saturn, il quale aveva notato «da marzo una nuova crescita dei visitatori nei punti vendita e qualche timido segnale negli acquisti e nell’interesse per le novità tecnologiche». Poi «la farsa e la tragedia» dell’Iva: «Una mazzata psicologica, che raffredda ogni tipo di segnale». Così gli ultimi tre mesi, che «per noi potevano essere positivi tra lo 0 e il 2%, con una stabilizzazione», con l’aumento saranno «più vicini allo zero, se non ancora in negativo». In ambito hi-tech, tra i più colpiti dall’aumento, saranno «gli acquisti importanti, come il televisore o il grande elettrodomestico». Non i tablet o gli smartphone «che sono ormai prodotti quasi necessari». Ma i primi effetti non arriveranno oggi, spiega Motta, «ma nel giro di 15-20 giorni, con i primi adeguamenti». Poi nel tempo «le aziende stesse modificheranno i listini: una parte dell’aumento verrà assorbito dalle aziende, parte, purtroppo, sarà sulle spalle dei consumatori. Contando le promozioni, nel tempo, si parla più o meno della metà». 
Ikea per i mobili e Esselunga nella grande distribuzione, diciamo così, più generalista, promettono che non toccheranno i prezzi.


giovedì 5 settembre 2013

Eurostat, nell'Eurozona la recessione è «tecnicamente» finita. Anche in Italia la frenata si attenua

Torna il segno più davanti all'indice del Prodotto interno lordo dell'Eurozona. Dopo un anno e mezzo di recessione, Eurostat ha confermato oggi il ritorno alla crescita, per quanto timida, del Pil europeo nel secondo trimestre di quest'anno, dopo sei rilevazioni consecutive in calo, già anticipato da una prima stima a Ferragosto. Il Pil è salito dello 0,3% nell'Eurozona (i 17 paesi che hanno aderito all'euro) e dello 0,4% nell'Ue (che nel periodo aprile/giugno era ancora composta da 27 paesi, ai quali solo in luglio si è aggiunta la Croazia). Rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso, il dato resta negativo nell'Eurozona (-0,5%) mentre è stabile nell'Ue a 27. Per Eurostat, l'Europa si porta così, almeno tecnicamente, fuori dalla recessione, confermando la prima stima dell'ufficio europeo di statistica del 14 agosto.

Italia ancora in frenata, ma meno rispetto al I° trimestre
Meno positivo il dato del Pil riferito all'Italia. Dopo il calo registrato ieri dall'Ocse (-2,4% nel 2012, con ulteriore flessione dell'1,8% nel 2013), l'Eurostat stima il Pil nazionale ancora in discesa nei primi sei mesi dell'anno dello 0,2% rispetto al primo trimeste, calo che comunque segna una attenuazione della contrazione rispetto al -0,6% registrato a inizio anno. Tra gli Stati membri i cui dati sono disponibili, il dato migliore su base trimestrale arriva dal Portogallo (+1.1%), seguito da Germania, Lituania, Finlandia e Regno Unito (tutti a +0.7%). Oltre all'Italia, l'arretramento piu' consistente riguarda invece Cipro (-1.4%), Slovenia (-0.3%), e Olanda (-0.2%).

La soddisfazione di Van Rompuy: finita la crisi esistenziale dell'eurozona
Soddisfatto per i dati diffusi dal Eurostat il presidente del Consiglio Ue, Herman Van Rompuy: «La "crisi esistenziale" dell'eurozona è finita. Ma la crisi economica, di crescita e lavoro, è ancora con noi» e quindi «non è tempo per compiacersi: la spensieratezza potrebbe mettere in pericolo gli sforzi fatti ed i risultati raggiunti». Per Van Rompuy, si cominciano a vedere «risultati concreti», dal momento che i segnali di crescita «sono disomogenei, modesti, forse fragili, ma positivi».

Rehn: segnale di svolta per l'economia europea
La conferma delle previsioni di Ferragosto spinge il portavoce del commissario Ue agli Affari economici, Olli Rehn, a paralre di «ulteriore segnale che l'economia europea ha raggiunto il momento di svolta». Insieme ai recenti indicatori sulla fiducia del business e dei consumatori in rialzo, il dato di oggi «é una conferma della previsione di un graduale ritorno alla crescita nella seconda metà dell'anno».

Brunetta: Italia grande malato, Saccomanni chiarisca coperture Imu
In Italia, gli ultimi dati Eurostat sul Pil (che seguono alle fosche previsioni Ocse di ieri) sono accolti con toni pessimistici dal capogruppo Pdl alla Camera, Renato Brunetta, che sottolinea come l'Italia sia tornata ad essere «il "grande malato d'Europa". Gli altri Paesi sono usciti dalla crisi, noi no». Brunetta invita quindi il ministro dell'Economia Saccomanni a «dire subito cosa intende fare per invertire la rotta», spiegando agli italiani «come coprirà il non aumento dell'Iva dal prossimo primo ottobre (1 miliardo)» e come finanzierà «la cancellazione della seconda rata dell'Imu sulle prime case e sui terreni e fabbricati funzionali alle attività agricole (2,4 miliardi)».

giovedì 25 luglio 2013

Bce: aumenta la stretta sul credito alle imprese, meglio i prestiti alle famiglie per la casa


Su Il Sole 24 Ore:

Le politiche per l'offerta dei prestiti alle imprese sono divenute nel secondo trimestre 2013 «lievemente più restrittive», riflettendo le prospettive sfavorevoli dell'economia e il maggior rischio di credito. Lo rileva l'indagine sul credito bancario della Bce. Emergono, tra i segnali positivi, alcuni spiragli sul credito alle famiglie: «Si è interrotto l'irrigidimento delle condizioni di offerta dei prestiti alle famiglie per l'acquisto di abitazioni, riflettendo le prospettive meno sfavorevoli per il mercato immobiliare», scrive la Banca centrale.

Stretta sul credito alle imprese anche in Italia 

La situazione non cambia in Italia, come registra il focus specifico sul nostro paese a cura della Banca d'Italia. Le politiche di offerta dei prestiti dalle banche alle imprese sono divenute, anche nella penisola, «leggermente più restrittive». L'ulteriore irrigidimento dell'offerta del credito, commenta via Nazionale, «riflette principalmente le prospettive sfavorevoli per l'attività economica e un connesso maggiore rischio di credito». Secondo le banche interpellate anche la domanda è rimasta fiacca nel secondo trimestre sia da parte delle imprese (pochi investimenti) sia da parte delle famiglie (bassa fiducia dei consumatori).

mercoledì 3 luglio 2013

Nel mercato residenziale europeo bene Nord Europa, Svizzera e Londra, il Sud ristagna

Il Sole 24 Ore ci mostra un quadro generale di quello che è il mercato del mattone in questo momento in Europa.

La corsa al mattone tedesco, non solo residenziale ma anche "commercial" (quindi uffici, negozi, centri commerciali e industriale), porta la Germania a gestire oggi la fetta più importante del real estate europeo: il 29% su un totale di 615 miliardi di euro (178,35 miliardi), valore stimato per fine anno in crescita dell'1,4% sul 2012.
L'Italia si ferma al 19%, con un fatturato previsto di 115 miliardi di euro per fine 2013. Sono questi i dati appena pubblicati da Scenari Immobiliari, che valuta nel 74% del totale il valore del segmento residenziale italiano. Dati che si inseriscono in un clima meno statico del passato grazie ad alcune operazioni concluse da operatori stranieri come Axa e Alllianz e altre pronte ad essere firmate. Anche se una vera ripartenza del comparto richiede un repricing più sostanzioso di quello avvenuto finora nel settore commerciale. Le previsioni sul secondo semestre, pur se leggermente positive, sono legate al miglioramento dell'economia complessiva e ad una maggiore fiducia delle famiglie e delle imprese, dice Scenari. Tutto si gioca sul campo della ripresa economica e della crescita. Se non riparte l'economia questa volta il mattone non potrà imboccare di nuovo la strada della crescita. Certamente, secondo gli operatori il real estate non avrà il ruolo di locomotiva per far ripartire anche altri comparti.

Il mercato residenziale
A fare la parte del leone nel fatturato generale è il residenziale, che mostra un andamento a due velocità da mesi. Paesi del Nord Europa, Svizzera e Gran Bretagna (ma quasi esclusivamente Londra) che vanno bene, Sud Europa in tilt. Ma bisogna evidenziare anche una differenziazione del trend in base al segmento di mercato. Il lusso ha tenuto meglio alla crisi, e anche in Spagna il settore delle case di alto livello ha subìto perdite di valore inferiori a quelli registrati da segmenti di livello medio-basso e periferici.
A pesare sulla domanda in Italia - qui i volumi delle transazioni hanno perso 27 miliardi di euro nel 2012, in termini numerici le transazioni si sono ridotte del 25,7% - è il difficile accesso al credito, ma anche la riduzione del reddito disponibile. La crescente disoccupazione e i timori di un inasprimento della crisi economica tengono lontani i compratori dal mercato immobiliare. È così che nel primo trimestre del 2013 l'agenzia delle Entrate registra ancora compravendite in discesa del 14% circa.
Secondo Scenari Immobiliari nel complesso europeo i valori nominali degli immobili sono stabili o in lieve calo, mentre flessioni più consistenti caratterizzano i Paesi in cui la recessione economica è particolarmente grave, quali Spagna, Portogallo, Irlanda e Grecia. In aumento i valori in Germania, Turchia e Svizzera. Quest'ultima con molte città a rischio bolla.

Il segmento uffici
Nonostante la crisi il settore direzionale ha mostrato una discreta tenuta, anche se l'incertezza sull'euro e l'inasprimento fiscale, soprattutto nell'Europa del sud, hanno un impatto pesante sul mercato del lavoro e frenano la ripresa. L'atteggiamento delle grandi società è differenziato: alcune sono prudenti e rimandano le decisioni, mentre altre portano avanti piani di espansione. Molte comunque ricontrattano i canoni per cercare di abbassare le spese. Questo è il trend più evidente del periodo. E i proprietari pur di non perdere l'inquilino si impegnano spesso a ristrutturare o a fornire qualche benefit. Qualche grande multinazionale, come Microsoft alle porte di Milano, intende ridurre drasticamente gli spazi e tornare in centro città. Anche gli edifici di classe A nel settore uffici in questo momento in Italia stanno vivendo un momento di sofferenza. Non c'è mercato per i complessi obsoleti. Anche nel resto d'Europa è in decisa crescita il gap tra immobili primari, con riferimento ai quali la domanda, sia di locazione che di investimento è sostenuta, e quelli secondari, caratterizzati da un eccesso di offerta e quotazioni in calo.

Negozi e shopping center
Gli spazi dedicati al commercio di livello primario hanno mostrato un andamento complessivamente positivo, con un divario sempre più ampio tra i diversi Paesi. Tuttavia le prospettive di sviluppo restano deboli nella maggior parte dei Paesi occidentali, mentre alcuni mercati emergenti, come quelli russo e turco, sono in fase espansiva.
Anche in Italia, dove negli anni passati gli investimenti dei grandi operatori, soprattutto esteri, si erano concentrati su retail park e shopping center, vive una fase riflessiva sul segmento retail.
A soffrire sono soprattutto le location secondarie.
Pertanto i canoni di locazione salgono nelle aree di pregio delle piazze più richieste, quali Istanbul, Mosca, Londra e le principali città tedesche, mentre per gli immobili secondari aumenta l'offerta e scendono le quotazioni.

Industriale
Con la crisi economica imperante certo il segmento degli immobili industriali non può che cedere il passo. Ma ci sono Paesi nei quali nell'ultimo semestre i mercati immobiliari industriali hanno mostrato una lieve ripresa, anche se l'atteggiamento di affittuari ed investitori continua ad essere dominato dalla prudenza. La domanda è in aumento in numerosi mercati, soprattutto con riferimento ai prodotti primari e alle superfici di medie dimensioni. Ancora in sofferenza, invece, le aree secondarie e gli spazi più grandi, per i quali la domanda continua ad essere modesta. Tra i mercati più attivi Amburgo, Monaco e Kiev.

mercoledì 26 giugno 2013

Spread sopra i 310 punti dopo l’asta del TesoroPiazza Affari chiude in calo (-o,37%)

Leggendo sul Corriere della Sera...

Nonostante il recupero delle borse europee, è una nuova giornata di tensione sui mercati finanziari, che, senza aver ancora digerito l’annuncio del ridimensionamento del piano di stimoli della Federal Reserve, si sono trovati all’improvviso di fronte lo spettro di una crisi di liquidità in Cina. Un clima di incertezza che continua ad avere un impatto sensibile sul nostro mercato del debito.

LE ASTE DEL TESORO - Il Tesoro ha oggi collocato Ctz a due anni per 3,5 miliardi di euro a un rendimento del 2,403%, il maggiore dal settembre 2012 e in aumento dell’1,29% rispetto all’asta precedente. Stesso copione per l’asta di Btpei, dove i titoli con scadenza nel 2018 hanno registrato un incremento dei tassi altrettanto sensibile. Immediato il riflesso sullo spread Btp/Bund, che, dopo un’apertura intorno a quota 290, ha sfondato nuovamente la soglia dei 310 punti. E se non avesse iniziato ad aumentare anche il costo del debito della Germania, il differenziale risulterebbe ancora più preoccupante, a fronte di un rendimento dei Btp decennali salito sopra il 4,8%, ai massimi da quasi cinque mesi. Febbre da spread anche in Spagna, dove il netto rialzo dei rendimenti all’asta di titoli a tre e nove mesi ha riportato sopra il 5% il rendimento dei Bonos decennali.

I LISTINI - L’impatto delle aste sui mercati azionari si è però fatto sentire solo a Piazza Affari, che a mezzora dalla chiusura è l’unica borsa europea in ribasso (-0,23%) a causa delle vendite sui bancari, mentre Madrid viaggia in rialzo dello 0,77% poco sotto le altre piazze del vecchio continente (Francoforte +1,43%, Parigi +1,46%, Londra +1,3%). Una seduta positiva propiziata dal recupero di Shanghai, che ha chiuso in flessione dello 0,2% dopo essere precipitata ai minimi da quattro anni e mezzo, in calo di oltre il 5%, a causa del timore che le misure restrittive varate sui flussi di denaro varate dalle autorità di Pechino causino un credit crunch.

giovedì 13 giugno 2013

Confcommercio, solo nel 2036 si recupererà il potere d'acquisto perduto

La Repubblica:

MILANO - Nel 'tax freedom day', cioè il giorno in cui si smette di lavorare per coprire il carico fiscale, arriva un nuovo allarme di Confcommercio sulla situazione del Paese. In un rapporto significativamente intitolato "l'Italia arretra", l'associazione dei commercianti denuncia che nel 2013 il numero di giorni di lavoro necessari per pagare tasse, imposte e contributi ha raggiunto il suo massimo storico: 162 giorni (ne occorrevano 139 nel 1990 e 150 nel 2000). Ne occorrono invece 130 nella media europea (-24% rispetto all'Italia). Un inasprimento che aggredisce un monte redditi già declinante contribuendo così sia a comprimere la domanda aggregata, sia a scoraggiare l'offerta di lavoro.
Onere da 10 miliardi per gli adempimenti fiscali. Secondo la ricerca Confcommercio-Cer, però, non è solo l'entità delle tasse a stringere un cappio sullo sviluppo economico. Sono ben 269 le ore di lavoro l'anno che servono a ogni impresa italiana per adempiere agli obblighi richiesti dal Fisco: l'eccesso di burocrazia porta i tempi necessari a espletare le pratiche al doppio della Francia, al 60% in più della Spagna, e al 30% in più della Germania. Le Pmi italiane sostengono così per gli adempimenti fiscali un onere annuo di 10 miliardi, quasi il 50% in più della media dei Paesi Ue.
Potere d'acquisto. A causa della crisi, "ogni famiglia italiana ha registrato, in media, una riduzione del proprio potere d'acquisto di oltre 3.400 euro". La dimensione raggiunta dalla caduta dei redditi è tale che, "se pure si riuscisse a tornare alle dinamiche di crescita pre-crisi, bisognerebbe comunque aspettare fino al 2036 per recuperare il potere d'acquisto perduto". In termini reali, "il reddito è in flessione ininterrotta dal 2008, con una contrazione cumulata dell'8.7% e una perdita complessiva di 86 miliardi di euro". I consumi delle famiglie, "nel 2009
ancora capaci di contrastare gli effetti della Grande recessione mondiale, sperimentano oggi una flessione di dimensione mai registrata nei quasi 70 anni di vita della Repubblica italiana". Il presidente Carlo Sangalli, ricordando come Squinzi che "il nord è sull'orlo del baratro", ha spiegato che i consumi sono al livello del 2000 e gli investimenti pubblici al 2003". In queste condizioni, hanno chiuso i battenti più di 40mila imprese quest'anno".
Priorità: no aumento Iva. La sterilizzazione dell'aumento dell'Iva in programma a luglio costituisce una priorità. Secondo lo studio, le ragioni a favore di uno spostamento della tassazione dalle persone alle cose mostrano "chiari elementi di debolezza. L'aumento dell'Iva determinerebbe pronunciati effetti regressivi". Sostituire una minore Irpef con una maggiore Iva, sempre secondo la ricerca, penalizzerebbe le famiglie comprese nel primo 50% della distribuzione del reddito, con perdite comprese fra 200 e 50 euro per nucleo familiare. Lo stesso presidente Sangalli ha parlato dell'ipotesi di innalzamento dell'Iva al 22% come di "benzina sul fuoco della recessione". Sul punto si è anche assistito a una contestazione del ministro allo Sviluppo economico, Flavio Zanonato, che ha detto di "non poter promettere" il congelamento dell'imposta.
Crescita nel biennio all'1,9%. In questo contesto, secondo lo studio la ripresa resta debole e ben sotto le stime del governo: "L'economia italiana continua ad arretrare. Come mostra l'esercizio di previsione, il Pil diminuirà nel 2013 per il secondo anno consecutivo e per la quarta volta dal 2007. Le prospettive di recupero per il 2014-15 appaiono inoltre più deboli di quelle assunte dal Governo nel Def dello scorso aprile: secondo le nostre stime, nel prossimo biennio la crescita cumulata si arresterà all'1,9%, un punto in meno di quanto prospettato nei valori programmatici (2,8%)".

venerdì 7 giugno 2013

Lo spread BTp-Bund è sceso, ma mutui e prestiti restano troppo cari

Trovato sul Sole 24 Ore:

«È lo spread», si diceva: finché non si riduce lo scarto fra i BTp e i Bund e non torna la fiducia nei confronti dell'Italia le banche faranno sempre fatica a raccogliere il denaro e non potranno così ridurre l'altro «spread», quello praticato su mutui e prestiti di nuova emissione a famiglie e imprese. Il primo dei due differenziali è però sceso, l'altro ancora no. E la conferma arriva dai dati che la Banca d'Italia
consegna ogni mese alla Bce. Le cifre più aggiornate pubblicate ieri da Francoforte riguardano aprile, un mese in cui lo scarto fra i titoli di Stato decennali di Italia e Germania è tornato più o meno stabilmente sotto la soglia dei 300 punti base dopo le incertezze post-elezioni e nel quale è sostanzialmente proseguito il ribasso dei tassi Euribor (quasi azzerati) e Irs che costituiscono la base rispettivamente per i prestiti a tasso variabile e a tasso fisso. I nuovi mutui costano però sempre lo stesso interesse alle famiglie italiane, anzi qualche centesimo in più in media rispetto al mese precedente: 3,95% contro il 3,90 per cento. Stesso discorso per i finanziamenti alle imprese, cresciuti ad aprile di un decimo al 3,6 per cento. Insomma, mentre i mercati allentavano la pressione attorno al nostro Paese, e le banche italiane (almeno le principali) tornavano a rifornirsi senza particolari problemi sui mercati dei capitali, sul versante dei prestiti e dei loro tassi non si riusciva a fare alcun passo in avanti: restano gli stessi "spread" elevati e si conferma soprattutto un divario rispetto alla media europea di 55 punti base per i mutui immobiliari e addirittura di 88 punti quando si parla di finanziamenti alle imprese. Certo, paragonarci alla Germania che è in grado di offrire denaro al 2,9% alle famiglie (l'1% in meno rispetto all'Italia) e addirittura del 2,14% alle aziende (qui lo scarto supera abbondantemente i 100 punti base) può essere fuorviante. Di fronte a noi abbiamo però l'esempio della Spagna, le cui banche continuano a praticare condizioni meno penalizzanti almeno sui mutui (il tasso medio di aprile è del 3,20%) nonostante le difficoltà del mercato immobiliare iberico. Da noi invece, parlando sempre di mutui, lo "spread" praticato dagli istituti finanziari sui nuovi prodotti (al quale va poi aggiunti Irs oppure Euribor) fa ancora fatica a scendere sotto lo "zoccolo duro" del 3%, nonostante i mercati si siano quietati ormai da qualche mese. Certo, le banche ricordano che le condizioni a cui vengono erogati mutui e prestiti non dipendono soltanto dal divario fra i BTp e i Bund, ma anche da molti altri fattori quali l'accresciuta rischiosità della clientela italiana in una fase di recessione prolungata come quella attuale e anche le norme più stringenti rispetto ad altri Paesi europei alle quali sono sottoposte dalle autorità regolamentari. Si tratta di attenuanti che possono essere concesse, ma che non cambiano la sostanza: famiglie e aziende italiane continuano a pagare più delle altre europee l'accesso al credito.

venerdì 31 maggio 2013

Le imprese hanno ora bisogno che la Bce porti il tasso sui depositi sotto-zero

Sul Sole 24 Ore ho trovato questa notizia...

Gli analisti sono divisi soltanto sulla data del prossimo taglio dei tassi da parte della Banca centrale europea: giugno o luglio? Al netto di questo dubbio la maggior parte è certa che a breve l'istituto di Francoforte ridurrà ulteriormente il costo del denaro, attualmente fissato al minimo storico dell'area euro dello 0,5% (con il tasso sui depositi, quello che la Bce paga alle banche che parcheggiano la liquidità, già azzerato).
Nelle ultime ore l'Ocse, l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, ha esortato il governatore Mario Draghi a intervenire ancora, portando in negativo il tasso sui depositi per scoraggiare quindi le banche dal parcheggiare la liquidità nel conto corrente della Bce. Con la speranza che una parte di questa liquidità finisca invece nell'economia reale, a quelle Pmi che arrancano a causa della chiusura dei rubinetti del credito (nell'ultimo anno secondo Bankitalia lo stock di prestiti bancari alle imprese si è ridotto di 40 miliardi).
Ma il punto è proprio questo: un taglio dei tassi da parte della Bce impatterà positivamente nell'economia reale? Purtroppo la speranza che questa liquidità offerta quasi gratuitamente alle banche venga girata alle imprese sono remote. Per almeno tre motivi:
1) le banche devono rafforzare il patrimonio per via dei vincoli più stringenti di Basilea III;
2) le banche preferiscono fare profitti immediati che profitti a medio-termine (anche perché i bonus ai manager vengono commisurati sui profitti annui). Questo fa sì che spesso risulti più "conveniente" per le aziende bancarie utilizzare la liquidità per compiere operazioni speculative piuttosto che oliare imprese che operano in un tessuto produttivo a Pil calante (quale appunto l'Italia);
3) non esiste una legge/regolamento che obblighi le banche a prestare soldi alle imprese. Una funzione vitale per l'economia che ad oggi rientraperò  tra le facoltà delle banche;
Per cui, l'unica speranza che una parte dell'ulteriore liquidità che finirebbe nelle casse delle banche con un conseguente taglio dei tassi da parte della Bce è che ciò accada per via indiretta. In che modo? Se il tasso sui depositi fosse portato su una soglia negativa potrebbe innescare una vendita di euro comportando a ruota una svalutazione della moneta unica. Svalutazione che risulterebbe "competitiva" per molte imprese e aiutarebbe l'export. Una ripresa dell'export e delle prospettive di utili per le imprese potrebbe poi spingere le banche a trovare più conveniente puntare su imprese nuovamente profittevoli. Ed è così, che al compimento del cerchio, le banche potrebbero tornare a prestare alle imprese la liquidità che comprano oggi a buon mercato dall Bce.
governatore Mario Draghi a intervenire ancora, portando in negativo il tasso sui depositi per scoraggiare quindi le banche dal parcheggiare la liquidità nel conto corrente della Bce. Con la speranza che una parte di questa liquidità finisca invece nell'economia reale, a quelle Pmi che arrancano a causa della chiusura dei rubinetti del credito (nell'ultimo anno secondo Bankitalia lo stock di prestiti bancari alle imprese si è ridotto di 40 miliardi).